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27/06/2020

L'osteria del pallone: la parola ad Andrea Dorno

L'Atletico San Lorenzo, nel corso dei suoi ormai sette anni di vita, ha visto crescere vistosamente, accanto al numero di squadre iscritte ai vari campionati, anche il numero, e la qualità, di atlete e atleti, nonché del personale tecnico che quotidianamente li allena.

Con la rubrica "L'osteria del pallone" diamo loro la parola: ci racconteranno le loro esperienze sportive, in campo e in panchina, i loro credo calcistici, cestistici e pallavolistici, le partite più belle che hanno disputato difendendo i nostri colori.

Oggi è il turno di Andrea Dorno, ala grande e capitano della squadra di basket maschile rossoblu.

A lui la parola.

 

Ciao Andrea, raccontaci la tua biografia sportiva.

Mi chiamo Andrea Dorno, nato il 18 settembre 1995. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che sapessi camminare, mio padre è stato un giocatore per tantissimi anni, poi allenatore. Ci giocava anche mio fratello, quando avevo tre anni ricordo che qualche partita ‘’allegorica’’ l’ha giocata anche mia madre, non so se lo ricordo veramente, ma ci sono delle foto che testimoniano tutto ciò. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che scoprissi cos’è il basket veramente. Come tutti o tutte che ne hanno la possibilità, ho iniziato a giocare quando avevo 5 anni, rincorrendo la palla, facendo gli slalom tra i birilli: avevo un testone spropositato come tutti i bambini a quell’età. Ho iniziato a giocare ad Avetrana, nella società di basket in cui allenava mio padre. Il mio primo allenatore è stato Walter Rizzo, era lui ad allenare i più piccoli mentre mio padre allenava le squadre senior. In realtà Walter allenava le più piccole, Avetrana aveva delle squadre femminili formidabili, ai maschietti, per cultura o per divertimento, piaceva fare calcio. Avetrana è un paesino piccolissimo, più passano gli anni, più la gente emigra e il paese diventa sempre meno giovanile. Per tantissimi anni sono stato l’unico della mia età a giocare a basket e quindi mi sono allenato fino agli otto anni con la femminile e i ragazzi più grandi. Ogni tanto avevo il privilegio di giocare con i più grandicelli, classe 92/93 (ai tempi quella categoria si chiamava Bam), oppure con quelli ancora più grandi, classe 89/90, la squadra di mio fratello. Da piccolissimo ho sofferto moltissimo il fatto di non avere una squadra di coetanei: con le ragazze non potevo giocare anche perché erano notevolmente più grandi di me, fatta eccezione di qualcuna, i maschietti più grandi invece non passavano la palla e non mi si filavano perché ero piccolo, i primi eccessi di testosterone iniziavano per loro ad andare in circolo creando i primi episodi di machismo e bullismo a cui ho assistito in vita mia. Poi finalmente, circa a 9 anni, i compagni della mia classe decidono, dopo tantissime suppliche da parte mia, di venire a farsi un allenamento e provare con la pallacanestro. Ricordo quell’anno come l’anno più felice della mia vita, facevo parte di una squadra, una squadra fatta da gente che conoscevo, miei coetanei. La mattina a scuola e il pomeriggio in palestra, inutile dire che sono nate delle amicizie che durano tutt’ora. Alcuni dei miei compagni di squadra del tempo sono i miei migliori amici. Alessandro Saracino, mi commuovo se penso che ora è un tifoso dell’Atletico San Lorenzo, vederlo nella San Lorenzo Arena mi ha fatto scendere dei goccioloni monsonici dagli occhi. Tutt’ora giochiamo nel play-ground della Snia insieme, proprio come facevamo da piccoli ad Avetrana. Ero il più forte della squadra, ero capitano, giocavo ormai da 5 anni, tutti gli altri erano appena arrivati dal calcio. Mio padre iniziò ad allenarci, Avetrana riuscì grazie ad una giunta comunale molto sensibile al tema sportivo, ad ottenere un palazzetto da urlo. Fu anche (e soprattutto) questa struttura gigante, finanziata e sostenuta dal comune e dalle società ad aver fatto esplodere il basket, così come il mini calcio, la pallavolo, il pattinaggio e tantissimi altri sport ad Avetrana. Ogni fine anno sportivo, mio padre insieme a tutta la società di basket, le squadre, i genitori, gli atleti e le atlete organizzavano un torneo di minibasket, gigante, venivano da tutta la regione. Avetrana conta poche migliaia di abitanti, per quel giorno ospitava fino a 8000 persone… il primo campionato della mia squadra (così come tutti i campionati della mia vita), non ha visto vincitrice la squadra per cui giocavo. Il primo anno la mia affiatatissima squadra di minibasket, perdeva regolarmente ogni partita, risultati incredibili, ricordo un 114-9 a favore di una formidabile Martina Franca. Crescendo abbiamo iniziato a giocare meglio, i miei compagni hanno sempre fatto affidamento su di me, d’altra parte grazie a mio padre che allenava, praticamente ero con la palla in mano quasi per 6 ore al giorno. Iniziavo allenamenti con i piccoli, poi arrivava la squadra mia, poi iniziavo con i più grandi, poi con le ragazze, poi a guardare la squadra senior… era un rituale: papà staccava dall’Ilva, mi passava a prendere, chiedeva se avevo fatto i compiti (lo faceva con chiunque), se non li avevo fatti li facevo in palestra (a volte baravo). Iniziammo a vincere qualche partita, segnavo in media 30/40 punti a partita, giocare con i più grandi dava i suoi risultati. Improvvisamente le elezioni politiche cambiano la giunta comunale. Sale il centro destra, i finanziamenti alle strutture sportive finiscono. La società va in rosso per decine di migliaia di euro. Avetrana fallisce. Smetto di giocare all’età di 12 anni. Mio padre ha una cicatrice tutt’ora aperta nel cuore, non ha più parlato di basket per parecchi anni. Perdo un anno e mezzo di basket, ma prendo 20 cm d’altezza. Non avevo nulla da fare. Giocavo a calcio per le strade del paese, andavo in bici, abbiamo iniziato a fumare qualche sigaretta e ad annoiarci. La mia annata ricevette un durissimo colpo quell’anno. Rimanevano le amicizie, quelle mi hanno sempre tirato su. Cosa rimaneva di tutti quegli anni passati dentro il palazzetto a giocare a basket? Per me rimaneva Alessandro e tantissimi palloni a casa che non ho mai potuto usare perché non avevo un canestro, per mio padre rimanevano foto, ricordi e casacche custodite con cura maniacale a casa. Non volevo fermarmi, volevo giocare, vorrò sempre giocare… Mio padre non voleva che giocassi perché credeva che stessi inseguendo un sogno inutile e pericoloso. Secondo lui sarei finito da una società all’altra, trattato come un oggetto da presidenti padroni e società in bilico, per colpa del basket avrei lasciato o affrontato male gli studi, aveva paura mi sarei ritrovato dopo una vita di gioco, ad una vita in fabbrica a respirare veleno più o meno come lui. Amo il basket, ma non avrei mai lasciato gli studi. Promisi questa cosa, piansi, mi disperai, ma non sono riuscito a convincere mio padre (almeno all’inizio). Fu grazie a mia madre, a cui devo tutto ciò che di buono mi è capitato nella vita, che ho ripreso a giocare per il Vis Nova Messapica Manduria, sponsor Museo del Primitivo. Avevo perso quasi due anni di gioco, ero quasi 180 cm, ho dovuto riscoprire questo sport con le mie nuove misure. A Manduria, sono stato allenato da coach Dinoi, mio zio, se mio padre riuscì a darmi tutti i fondamentali, mio zio mi diede l’impostazione di gioco e le letture. Da lui ho imparato qualcosina sul vero basket, ho iniziato a ‘’masticare’’ i primi movimenti, le rotazioni difensive, ogni tipo di difesa a zona, ho imparato dai più grandi di me. Lì giocavo in ogni giovanile possibile, under 15, under 17 under 19, in più, qualche convocazione in D. Ero gasatissimo, davo il massimo, ero felicissimo di giocare in prima squadra anche se il primo anno l’ho giocato tutto in panchina, tranne ad una partita contro il Fasano in cui entrai perché eravamo carichi di falli. Gli anni successivi ho iniziato a giocare qualche minuto e a iscrivermi regolarmente a referto, continuavo a crescere senza prendere peso e, come un telaio di un aquilone, ho raggiunto 190cm. Arrivo ai miei 18 anni, ultimo anno di basket prima della partenza per gli studi, ogni meridionale che vuole laurearsi sa che arriva quell'anno maledetto, ricco sia di speranza sia di tristezza. Ma fallisce anche la società del Vis Nova. Perdo un altro anno di basket, l’ultimo in cui avrei potuto giocare in Puglia. Né mio padre, né mio zio mi hanno mai detto che avrei potuto tranquillamente giocare per qualche società, né mi hanno mai chiesto se avessi voluto continuare a giocare. Le loro azioni, scaturite dai timori del mio possibile abbandono scolastico, continuavano a dare i loro frutti marci, non ne faccio loro una colpa, purtroppo in Italia, sport e istruzione viaggiano su due rette parallele e questo ahimè l’ho scoperto fin da piccolo. Quell’anno per la prima volta pensai che lo sport in Italia non avrebbe mai avuto un futuro, il mercato si è mangiato ogni cosa, arrivando a privarti anche dei tuoi sogni da ragazzo. O hai la fortuna di essere chiamato in seria A o B quando hai 13 anni, oppure ciò che ti aspetta è un’adolescenza senza sport agonistico. Fu quell’anno che iniziai ad appassionarmi alla politica. Due cose erano chiare per me: privare una società della possibilità di fare sport è un’ingiustizia, le responsabilità di questa ingiustizia è politica (e non solo di questa!). Ho tantissimi ricordi e tantissime esperienze da raccontare potrei stare ore a scrivere, l’anno in cui è fallita la serie D a Manduria, l’anno in cui mi sono ritrovato nuovamente senza società, fu stranamente anche l’anno in cui mi chiamarono per lo AllStarGame Puglia, a Villa Castelli durante un camp estivo, lì giocammo una partita simbolica, una delegazione convocò i venti ragazzi più forti della Puglia (secondo loro), tutti under 20. In questo modo risparmiarono moltissimi soldi, di solito durante i centri estivi veniva sempre il Belinelli della situazione. Mi sentivo fuori luogo, ero l’unico senza società, l’unico ad aver giocato in D (tutti gli altri andavano dalla C1 in su). Giocai per vincere come sempre si dovrebbe fare nello sport, mi rifiutai di fare la gara di schiacciate, non me la sentivo anche se ormai schiacciavo tranquillamente come volevo. Come mi ha insegnato coach Dinoi, una schiacciata realizzata scrive due punti a referto come un appoggio sicuro a tabellone. In più in quel periodo iniziai ad odiare tutto ciò che il mercato estraeva dallo sport, la gara di schiacciate mi sembrava uno spettacolo inappropriato soprattutto per il contesto, L'AllStarGame dell’Nba non era più quello di una volta, doveva solo far vendere biglietti. Iniziai ad odiare l’Nba, le sue pubblicità infinite e le sue contraddizioni le sue regole che cambiano a seconda delle richieste del mercato. Non ho mai visto nessuna partita, né di Eurolega, né della serie A italiana. Ho sempre amato solo ed unicamente giocare, non ricordo nomi di allenatori importanti, né di grandi campioni. Infatti durante questo camp estivo per minibasket a cui fummo invitati a giocare come ‘’ragazzi pugliesi (tutti maschi) under 20 che ce l’hanno fatta’’ (fare una grossissima risata), fui allenato da un allenatore famosissimo a detta di mio padre. Ancora oggi non so chi è, né mi importa saperlo. Parto per Roma con tanti dispiaceri, le scarpette appese al chiodo ma felicissimo della nuova vita, felicissimo di avere dei play-ground in cui giocare gratis ogni volta che voglio. In Puglia, ad Avetrana non avrei mai potuto farlo, mancano le strutture. La bellezza di largo Passamonti… Lì incontro Lorenzo Ciccola, Valerio Vernile, mi dicono di venire a giocare con l’Atletico San Lorenzo ed eccomi qui 5 anni dopo, di nuovo in campo, questa volta con i colori giusti, i colori di una società che non può fallire mai.

 

Qual è l'atleta del basket mainstream (del presente o del passato) a cui ti ispiri? Perché?

Non l’ho mai visto giocare - ormai aveva un’ernia al disco, capelli assenti e un panciotto semi-arrogante - però il giocatore a cui mi ispiro è mio padre. Per me il vero cestista non è solo chi gioca bene, ma chi fa appassionare più gente possibile a questo sport. Il vero giocatore, quando non può più giocare per infortuni o età avanzata, allena. Lui per me è da sempre il giocatore a cui mi ispiro.

 

Qual è il giocatore più forte con cui hai mai giocato? L'avversario più ostico da affrontare?

Premetto che ho da sempre avuto problemi con i nomi e i cognomi, ho giocato con tantissima gente molto forte, ma il giocatore più mastodontico contro cui ho giocato è Mimmo Morena, icona assoluta del basket napoletano e poi del basket pugliese, ai tempi se non sbaglio giocava con l’Ostuni. Mentre l’avversario più difficile da battere per me è il mercato, il mercato vince sempre, soprattutto con gli ‘’sport minori’’, la sua vittoria coincide con l’impossibilità di fare sport per tutti e tutte. Per il mercato le società falliscono, resistono, arrancano, si fondono, ma lentamente periscono. Al mercato non servono tante società, ne bastano poche che fatturano tanto. Il mercato fa coppia fissa con l’amministrazione. Una combo letale, tossica e asfissiante. Loro due, ahimè, vincono sempre. Questo si nota dal altissimo numero di persone che non può fare sport. Portare le società allo sbando e negare il diritto allo sport sono due delle loro skills più micidiali.

 

Quale metodologia d'allenamento ti è più congeniale? Quale ti diverte di più e quale ritieni maggiormente efficace dal punto di vista sportivo?

Adoro tantissimo la modalità d’allenamento in solitaria, con il basket è molto semplice da fare: tu, il pallone, le linee del campo e il canestro. Isolarti da qualsiasi cosa, rivedere i fondamentali, partenza in palleggio, reverse, incrocio, arresto, tiro, giro in palleggio, penetrazione, appoggio semplice a tabellone. Con le cuffiette potrei passare le ore, in squadra credo che ogni giocatore abbia bisogno di fare quest’esercizio in solitaria per almeno mezz’ora. Lavorare sui fondamentali è un esercizio che non bisogna mai smettere di fare. Adoro fare esercizio di tiro, lento e ripetitivo, come un automa, completamente alienato nel movimento sempre uguale, è un lentissimo perdersi dentro sé stesso. Quando riesci a svuotare tutti i pensieri che ti rendi conto di non sbagliare (quasi) mai un tiro. Poi si passa al gioco di squadra perché un fondamentale importantissimo è il passaggio, quello da solo non puoi farlo, la squadra è tutto in questo sport. Odio però passare due-tre ore interamente a fare giochi di squadra, se non ho avuto la palla in mano, tutta per me almeno per un’ora mi sento insoddisfatto. Lasciami la palla per un’ora in mano e poi si gioca insieme. Non mi piacciono troppo gli sport individuali, ma amo il basket perché riesce a isolarti da tutto e tutti e nello stesso tempo riesce a metterti in connessione con i tuoi compagni e con il tuo coach. Il basket è una sorta di ibrido: puoi passare un’intera giornata da solo, palla in mano, Cypress Hill nelle orecchie, così come puoi passarla allo stesso play-ground a fare 4vs4. Il risultato emotivo è diverso. Tantissime volte largo Passamonti mi ha visto arrivare da solo a notte fonda, altrettante volte invece mi ha visto arrivare insieme a tantissime persone.

 

Cosa ne pensi della federazione a cui è affiliata la tua squadra (Fip)? Ritieni adeguati i provvedimenti di ciascuna federazione a sostegno delle squadre iscritte? Cosa cambieresti e cosa pensi debba fare una squadra di basket popolare all'interno delle federazioni?

Parlo della Fip, perché per 20 anni ho giocato nella Fip, le altre non le conosco. La federazione dovrebbe ridurre i costi, omologare i campi da gioco a seconda delle disponibilità del territorio, essere accessibile per tutti e tutte, liberarsi da quella puzza schifosa data dal sessismo di cui è impregnata. Dovrebbe cooperare con il sistema scolastico. Tutte le società per cui ho giocato hanno sempre attribuito agli eccessivi costi della federazione il motivo del loro fallimento. Dovrebbe far giocare i migranti con problemi di cittadinanza. Dovrebbe praticare antirazzismo, invece fa il contrario. Una squadra in federazione non dovrebbe abbassare la cresta, non dovrebbe accettare tutto quello che viene imposto, dovrebbe essere parte integrante e attiva nelle scelte federali, nella gestione dei campionati e soprattutto nella gestione economiche, non esiste federazione senza squadre, sono le squadre il cuore pulsante della federazione. Credo allora giusto che siano le squadre e gli arbitri a gestirsi i campionati e a dettare le regole.

 

Un altro genere di sport è possibile? Lo sport può essere vettore di un nuovo modo di vivere e pensare un mondo libero da sessismo ed omofobia?

Lo sport è lo strumento migliore per cambiare la società, liberare lo sport da sessismo, omo-transfobia e razzismo è una missione che ho intrapreso con le compagne e i compagni dell’Atletico San Lorenzo. Lo sport, specialmente lo sport di squadra, porta con sé tutti i valori in cui credo, l’antirazzismo, l’antisessismo. Non è lo sport che deve essere cambiato, ma la presa che questa società contorta ha sullo sport. Se dai una palla ad un gruppo di bambini e bambine, giocheranno tranquillamente, il litigio al massimo sarà se giocare a pallavolo, a calcio o a palla avvelenata. È questa società purtroppo, ad insegnarci fin da bambini, che l’uomo ha più potere della donna. Sono le federazioni e determinate società sportive ad investire più soldi per gli uomini che per le donne. Sono le famiglie ad iscrivere il bimbo a calcetto e la bimba a danza. Sono i mister ad usare spesso linguaggi violenti e sessisti con i propri allievi. La scuola dovrebbe essere il luogo dove queste ingiustizie andrebbero livellate, invece molto spesso è proprio nella scuola, nell’educazione fisica che assistiamo al perpetrarsi di queste ingiustizie. Tantissime volte mi è capitato di fare lezioni di educazione fisica in cui la prof ci divideva in squadre, due capitani sceglievano a turno le persone della propria squadra, finiva sempre che le ragazze erano scelte per ultime, ragazzi/e un po’ in sovrappeso o non venivano scelti o non volevano giocare ricevendo un’umiliazione costante fino al diploma. Partite di pallavolo (l’unica cosa che facevo a ed. fisica) in cui la palla girava solo tra ragazzi, la rete altissima. Dopo le prime tre settimane di scuola le ragazze non giocavano più, passavano l’ora di educazione fisica a fare altro, oppure a fare palleggi tra di loro con la palla sgonfia. Scene di questo tipo purtroppo sono la norma. La scuola è il laboratorio in cui formi te stesso da adulto, se già a scuola ci rassegniamo a queste dinamiche, non potremmo che diventare cittadini di merda in un mondo di merda. Praticare sport forma quello che sei, un altro genere di sport è possibile, è reale ed è quello che dobbiamo continuare a portare avanti. Per fortuna sono in aumento le società popolari come la nostra che portano avanti quest’idea.

 

Veniamo alla tua esperienza all'Atletico San Lorenzo: come e quando sei venuto a conoscenza della nostra polisportiva? Quando hai deciso di difenderne i colori?

Appena arrivato a Roma, volevo trovare il giusto posto per fare politica, a San Lorenzo sono entrato subito in sintonia con Communia. Lì ho trovato un ambiente favorevole e ho scoperto della ricchezza infinita del quartiere universitario di Roma. Ho scoperto la Libera Repubblica di San Lorenzo, ho conosciuto il Cinema Palazzo. Dentro Communia ho visto per la prima volta lo stemma dell’atletico San Lorenzo. I compagni e le compagne di Communia mi hanno subito detto di andare a giocare per l’Atletico. Io non volevo, dovevo studiare, avevo fatto una promessa, basta basket, basta delusioni… non potevo dedicare la settimana solo alla mia amata palla a spicchi. Poi a largo Passamonti, Vernile e Ciccola, mi spiegarono che l’Atletico non giocava con la Fip, che non è un impegno che mi avrebbe occupato tutti i giorni della settimana, e così sono andato a fare il mio primo allenamento. Lì ho conosciuto Emiliano, compagno di Communia cui è nata un’amicizia lunga e duratura, così come con Scaramuzzi, Dulcetti, Tridico, Forino, El-j, il mitico coach Sergio Ianniello che mi ha accolto benissimo. Non chiamavo una persona coach da troppo tempo. È partito l’amore. Ho capito che c’era un forte scarto rispetto a tutte le società che avevo conosciuto, l’impegno sociale, l’attaccamento al quartiere con i suoi pochi e indispensabili spazi, l’autofinanziamento. Ero abituato ad essere il playmaker tuttofare dell’Avetrana, poi la guardia/ala del Vis Nova… mi sono sempre sentito ‘’preso’’ dalle società in cui ho giocato, (nonostante Avetrana fosse casa mia), con il San Lorenzo, da subito, mi son sentito parte della società. E poco importa se giochi o tifi, è uguale. L’assenza dei padroni, è questo che mi ha fatto allacciare nuovamente le scarpette n. 48 questa volta per il rossoblu. Se manca il padrone, non si può fallire, se la società siamo tutti e tutte noi non potrò cadere mai più. Nessun* potrà cadere se tutto si regge sulle nostre spalle. Quando le società si affidano ad una persona sola, o ad un grosso sponsor che cadono come foglie d’autunno a seconda di come soffia il vento del mercato.

 

Quale partita in canotta rossoblu ti è rimasta maggiormente impressa? Quali i successi che ricordi con maggiore piacere? Quale/i sfida/e rigiocheresti per ribaltare il risultato maturato allora?

La partita che più mi è rimasta in testa fu quella contro Sermoneta: squadra fortissima, all’andata avevamo vinto contro ogni pronostico, al ritorno ci ritroviamo in un palazzetto gremito di gente, la partita va nel verso sbagliato da principio, Dulcetti aveva sofferto la guida isterica di Moncelsi, io ero gasatissimo, era la prima trasferta "lunga" che facevo (un passeggiata rispetto alle trasfertone cui ero abituato in Puglia: due ore solo per arrivare a Bari, quattro per raggiungere Foggia). Viaggio d’andata pompiamo i Nofx a tutto volume. Arriviamo, Dulcetti vomita negli spogliatoi, sotto di 20 al primo quarto. Mancanza d’allenamento, quasi un’ora e mezzo di macchina eravamo crollati con il fiato e con l’umore. Rischio una crisi iperventilatoria, chiedo a Sergio di uscire. La folla inizia ad insultarci, loro vogliono raggiungere quota cento punti - erano a 92 - noi disperatamente arrancavamo sui 49 a meno 2’’ dalla fine. Nonostante l’incredibile superiorità cestistica, gli avversari non esitano ad attaccare sempre di più, giocando anche decisamente sporco, io adoro giocare duro e provo piacere nel contatto fisico, però ricevere un’umiliazione proprio non mi piace. Così come non mi piace umiliare gli avversari, si gioca al massimo fino alla fine, ma a pochi secondi se sono in netto vantaggio mi fermo e inizio a salutare gli avversari (a meno che non è decisiva la differenza canestri). Chiamiamo time-out, rientriamo con Sergio che provava ad incattivirci, dicendoci che non importa il punteggio, non possiamo farci menare senza rispondere (il basket in fondo è anche supremazia fisica), così negli ultimi minuti ce le suoniamo di santa ragione, uno spettacolo raccapricciante, il loro pubblico completamente antisportivo, ci ha ricordato quanto fossimo diversi da quella realtà, noi non insultiamo i nostri avversari, non lo faremo mai. Entra El-j commette fallo a pochi secondi dalla fine. Il pubblico inizia ad insultarlo con frasi razziste: <> e ancora : << Sei una bestia>>. Non abbiamo più resistito, dopo un paio di lanci di oggetti dalla tribuna il tutto finisce con una rissa apocalittica, il pubblico ci aggredisce, l’arbitro aveva fischiato tre volte, El-j riceve qualche schiaffo, spintoni, Vernile sugli spalti accerchiato dai genitori della squadra di casa, ho temuto il peggio per lui. Insulti e schiaffi mentre le loro giovanili guardavano questo spettacolo medioevale. Ci chiudiamo nello spogliato, arrivano 3 volanti della polizia, ci scortano fino a Latina. Avevo una tachicardia esagerata. Di risse sportive ne ho fatte e viste tante in Puglia, ma mai scaturite per razzismo. Avevo e ho tuttora l’amaro in bocca per quello che è successo.

 

La stagione in corso si è purtroppo arrestata assai prima rispetto al naturale epilogo del campionato: rispetto alle premesse di inizio anno come giudichi il campionato fatto dalla tua squadra?

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Mi sono sentito emotivamente più coinvolto del solito, dopo 5 anni quest’anno ho svolto il ruolo di capitano, spetterà ad altri giudicare come me la sono cavata in questi panni, sinceramente ho dato quasi il massimo, visto che da ormai tre anni convivo con delle ginocchia anarchiche e il dare il massimo nel mio caso, va a braccetto con il 118. Com’è andato per me questo campionato? Ho scoperto che quando hai un campo tutto tuo hai una marcia in più, giocare nel quartiere ti dà due marce in più, essere allenati dal nuovo coach, il giovanissimo Matteo Magara a cui vanno tutti i miei più sentiti complimenti, ti dà tre marce in più. Nonostante tutto abbiamo dimostrato mentalità, spirito di squadra e di sacrificio, la squadra si è comportata benissimo in campo, ma soprattutto fuori, abbiamo stretto forti legami con altre squadre popolari di Roma: AllReds, Lokomotiv Prenestino e Atletico Diritti. Questi ultimo sono stati allenati da un mio carissimo compagno di squadra a Manduria, Alessandro Dinoi detto "gnomo". Per me quest’anno la vittoria ce la saremmo conquistata o l’avremmo gloriosamente sfiorata. Va attribuita buona parte al lavoro di coach Magara, e Davide Pizzardi, abbiamo vinto su tutto, ci siamo mossi come fossimo un unico organismo, ognuno ha dato la sua parte indispensabile. Il nuovo dirigente Fabio Francavilla ha portato ossigeno purissimo nel gruppo. Un ringraziamento speciale va al nostro atleta che non ha mai giocato, ma senza di lui non avremmo vinto una partita: Riccardo Landi, refertista e cronometrista ufficiale. Il tifo, il tifo a San Lorenzo è il nostro sesto uomo in campo, quest’anno l’Atletico si è superato, dentro le mura aureliane quest’anno è sorta una fortezza e sarà così per sempre sperando di ritornare presto a difendere il campo rossoblu. Nonostante quest’anno mi abbia regalato un totale di tre viaggi al pronto soccorso, un sopracciglio spaccato, un’operazione al ginocchio, il tutto per un totale di 29 punti di sutura, è stato un anno stupendo. Vorrei ringraziare tutti davvero e spero di rivederli tutti il prima possibile. Per me è da taglio di retina, voglio vederla così.

 

Il progetto "Una scuola atletica" ti ha visto protagonista nel portare l'Atletico e il basket all'interno delle scuole del quartiere. Come hai vissuto quest'esperienza? Che bilancio ne trai?

"Una scuola atletica" è un progetto scolastico che portiamo avanti da ormai tre anni nelle scuole del quartiere. La necessità di lavorare nella scuola nasce dalla consapevolezza che il miglior modo per approcciare i/le bambini/e allo sport è il sistema scolastico. Molto spesso lo sport non è trattato come dovrebbe essere, è palese a tutti/e come l’educazione fisica sia la pecora nera della scuola italiana. Come Atletico abbiamo cercato di riempire un buco provando a dare una possibilità ai/alle bambini/e e aiutando le docenti a cui il sistema chiede davvero troppo dispensando stipendi miseri. Sperando di riuscire a migliorare il progetto per l’anno prossimo: pandemia permettendo, vorremo provare a fare un discorso un po' più specifico su che significa diritto allo sport, e quanto sia fondamentale garantirlo su tutti i suoi livelli, specialmente nella scuola pubblica. Ringrazio tantissimo Enrico Weber per aver sostenuto il progetto, Giacomo Guerra e Alex Mane per averci aiutato quando non trovavamo le forze.

 

In questi mesi di attività sportiva assai limitata, se non del tutto assente, hai ritenuto leso il diritto allo sport per tutte e tutti? Ritieni che potesse essere adottata una maggiore elasticità per permettere l'esercizio dell'attività fisica?

La pandemia è una faccenda seria, complessa e va affrontata analizzando le specificità del caso. Il covid-19 ha un tasso di contagio elevatissimo. Ritengo saggia la chiusura delle attività sportive e dei campionati, il diritto allo sport è stato leso così come tanti altri diritti fondamentali. L’essermi privato di tre mesi di sport tuttavia mi fa riflettere su quanto lo sport è un diritto negato per tante persone, soprattutto prima della pandemia. Parchi a chiusura oraria, costi elevatissimi, orari di lavoro che non ti lasciano tempo libero, scuola con strutture assenti o educazione fisica inadeguata, sessismo e razzismo istituzionalizzato. Non è che prima si stava bene… Credo che a breve si potrà riaprire, in sicurezza. Temo fortemente una deriva ultra-restrittiva per determinate attività così come tendenze "iperigienizzanti" totalmente inutili. Se si può riprendere a giocare devo poterlo fare solo pagando una struttura o una società, mentre ho il divieto di andare al parco o al mare? Spero di no. Così come non può neanche essere che gioca solo chi si può permettere tutte le procedure di sicurezza… leggevo le procedure Fip e le trovo esagerate. Per permettere di fare basket ad un gruppo di ragazzi la società dovrebbe spendere tantissimi soldi in controlli e attrezzature specifiche (per esempio il pulisci scarpe?!). Spero sia lo Stato a garantire queste misure di sicurezza, perché in caso contrario vedo non solo il rischio di un possibile aumento della curva dei contagi, ma anche l’estinzione di numerosissime società sportive. Sulla limitazione personale dell’attività fisica, credo che quest’esperienza abbia fatto capire, che sport non è solo nel fisico allenato ma nell’esigenza di stare insieme. Ci sono delle modalità sicure per svolgere attività di squadra a distanza per esempio nei parchi. Dovremmo avere più parchi, questa è un’ovvietà che il coronavirus ha palesato a tutt*. L’idea che i campionati riprendano a giocare a porte chiuse, senza pubblico mi innervosisce, per me non può esistere sport senza tifoseria. O almeno non per sempre, tre mesi possono pure passare, non può passare però che l’evento sportivo sia di proprietà esclusiva delle pay-tv.

 

Al momento non abbiamo certezze sulla ripresa della prossima stagione: in attesa che si riabbia la possibilità di fare attività fisica agonistica, cosa ti auguri? Come vorresti fosse lo sport dopo la pandemia?

Per il futuro mi auguro che tutt* si siano resi conto dell’importanza dello sport e della socialità, mi auguro che vengano ridotti se non azzerati i costi, che venga praticato un altro genere di sport libero dal razzismo dal sessismo e dall’omo-transfobia. Mi auguro che lo sport torni di dominio pubblico, che i/le giovani si riprendano il diritto di giocare a palla in piazza. Mi auguro arrivi al più presto il prossimo campionato per poter nuovamente sputare sangue sul campo insieme ai miei compagni indossando la maglia 13(12) rossoblu, ma in fondo mi andrebbero benissimo anche sciarpa, gradoni e peroni.

 

Avanti RossoBlu!

 

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I primi tiri a canestro.

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In posa con la squadra di Promozione dell'Avetrana, anno 1998.

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Gran raduno mini basket a Avetrana.

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La prima squadra avetranese.

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Under 17 Vis Nova Messapica.

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Under 17 Manduria campione provinciale. Con Andrea anche Alessandro Dinoi, attuale coach dell'Atletico Diritti.

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il basket popolare a difesa del Rojava.

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"Magno, bevo e lotto sotto canestro".

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Banchetto di tesseramento di fronte al Bar Marani.

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Si festeggia l'ennesima vittorica casalinga del basket femminile.

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Al primo incontro della rete cittadina del basket popolare romano.

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Il destino scritto nei numeri di canotta.

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L'Atletico San Lorenzo in curva Rino della Negra a sostegno del Red Star di Parigi.

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Atletico San Lorenzo basket alla No Racism Cup.

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Primo trekking di squadra dopo la pandemia.

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L'Atletico San Lorenzo a sostegno delle manifestazioni contro il suprematismo bianco in corso negli Stati uniti.

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